Sin dal 1959, data della sua tesi di laurea, i disegni di Aldo Rossi dichiarano un’attenzione alla teatralità dell’immagine costruibile in architettura, un processo rappresentativo del progettare che si emancipa da ogni soggezione al tecnicismo e al funzionalismo
Germano Celant
Il Museo delle arti del XXI secolo ha ospitato, nel 2021 una bella mostra dedicata all’opera del primo architetto italiano a ricevere – nel 1990 – il Premio Pritzker considerato l’equivalente del NOBEL per l’architettura. Si tratta quindi di un personaggio di prim’ordine al quale è bene dedicare l’attenzione che merita. L’opera di Aldo Rossi permette – anzi impone – delle riflessioni importanti sull’uomo, sulla cultura contemporanea e sul futuro delle nostre città. Cominciamo col dire che la mostra – curata da uno degli allievi di Rossi – restituisce con efficacia l’arco dell’esperienza rossiana e presenta, con dovizia di documenti, quello che Rossi – nel bene e nel male – può insegnarci.
Non ho riscontri sperimentali, ma scommetterei che la reazione davanti alla monumentale opera del maestro esposta nella mostra sarà di duplice segno: entusiastica e quasi adorante quella degli addetti ai lavori, perplessa o scettica quella del pubblico non specialista. Quando questo avviene c’è da stare in guardia: probabilmente siamo in presenza di un fenomeno rivelatore. Cosa distingue l’attitudine del pubblico dei fruitori da quella dello studioso di architettura? Già Benjamin aveva segnalato la modalità “distratta” con cui – nel quotidiano – si ha consapevolezza dell’architettura, dell’ambiente in cui si vive. Per il cultore di architettura invece tutto ciò che riguarda l’arte del pensare la città e le forme degli edifici, questo corollario marginale della nostra esistenza, assume un carattere centrale e quasi assoluto. In particolare proprio la temperie culturale cui Aldo Rossi appartiene ha vagheggiato la cosiddetta “autonomia dell’architettura” ovvero il suo valore oggettivo, scientifico, assoluto cioè libero e indipendente da altre e superiori finalità. Non è un caso che negli scritti, nei temi trattati e negli stessi titoli dei progetti di Rossi compaia così spesso il termine “scientifico” termine rivelatore dell’aspirazione a conferire al proprio linguaggio, al proprio metodo e ai risultati forme di qualità assoluta. Per questo dico che riflettere sul lavoro di Aldo Rossi significa riflettere sul destino dell’architettura, sulla concezione di architettura che si desidera veder realizzata. Nella complessa tassonomia delle arti di origine classica e di formulazione medioevale l’architettura – pur considerata arte meccanica in quanto utile – è infatti spesso accostata alle due arti belle della pittura e della scultura. Questa antica ambivalenza è già sancita nel trattato Vitruviano con la famosa triade di caratteri di cui ogni buona architettura – secondo l’autore – non deve mancare e cioè: utilitas, firmitas, venustas. Si sa che nell’architettura confluiscono diversi saperi alcuni dei quali dotati di statuti consolidati e sufficiente rigore da poter ambire al titolo di discipline scientifiche (matematica. geometria, scienza delle costruzioni; entro certi limiti anche la storia e il disegno tecnico) e altri di carattere per lo più empirico che non possono rivendicare carattere di scientificità (tecnica delle costruzioni, caratteri degli edifici e tutte le progettazioni). Il carattere composito, ibrido dell’architettura rende problematica ogni valutazione sintetica onnicomprensiva, ci si divide quindi tra chi privilegia l’istanza di oggettivabilità del processo progettuale in sé e chi valuta il risultato finale in base alla vivibilità che assicura. Giulio Carlo Argan nella voce “architettura” che compila per il DEAU (dizionario enciclopedico di architettura e urbanistica, 1968) scrive:
“La fruizione dell’architettura non si distingue da quella delle altre arti soltanto per la pluralità illimitata dei punti di vista, ma per questa concreta abitabilità dello spazio: abitabilità che costituisce la finalità prima dell’intenzionalità dell’architetto e non impedisce la rappresentazione formale di idee e valori (…). Se ne deduce che l’architettura non è tanto rappresentazione di spazio, quanto designazione e definizione di luoghi, e che il suo interesse è più ecologico che propriamente spaziale”.
La via di Aldo Rossi all’architettura, la sua cifra stilistica e il suo approccio teorico non sembrano inseguire primariamente l’abitabilità di cui parla Argan quanto piuttosto l’invenzione (la riscoperta?) di forti valori iconici facendo leva sugli archetipi formali, le forme (e i colori) elementari, una certa fanciullesca affezione alla memoria ed al gioco combinatorio di poche forme plastiche: il cilindro, il cono, il parallelepipedo. Il risultato è una vittoria dell’immagine, una sorta di perverso capovolgimento di finalità che emancipando il disegno d’architettura dalla funzione preparatoria del vero postula addirittura una sorta di secondarietà dell’architettura costruita rispetto al momento in cui il disegno attua la sua magica alchimia. Stregati dal disegno (numerosi e dominanti quelli in mostra) ad inverare quello che – si parva licet compònere magnis – è stato sostenuto da protagonisti romani del periodo cosiddetto “dell’architettura disegnata” e cioè che l’architettura realizzata ambisce alla bidimensionalità. Rossi ha scritto: “E’ difficile pensare senza un’ossessione, è impossibile creare senza una base rigida e ripetitiva”. Ossessione e rigidità che appaiono i paradigmi prevalenti nell’opera figurativa del maestro. Opera figurativa dominante come esiti e come intenzioni rispetto alle realizzazioni tanto da sciogliere il dubbio se si tratti di propedeutica alla costruzione o di opera d’arte compiuta in sé. Beninteso non che Aldo Rossi concentri i suoi interessi sulla sola opera grafica e si disinteressi della costruzione. La costruzione è per lui l’approdo finale, la sanzione definitiva dei valori iconici elaborati nel laboratorio alchemico della sua memoria e delle sue ossessioni. Il punto è che il momento costruttivo, l’interazione tra ambiente e abitatore, l’abitabilità di cui parla Argan non sembrano entrare come rilevanti nella definizione delle forme. Una volta definito il gioco degli archetipi, dei simboli e messa in campo la memoria ancestrale filtrata attraverso l’interpretazione del proprio demone, la figura del fruitore reale, l’uomo in carne e ossa (quello per intenderci così presente nella ricerca di Ridolfi, di Michelucci o di De Carlo) perde consistenza e svanisce. Non è più il committente dell’opera. Antonio Averulino, detto il Filarete, nel secondo libro del suo Trattato di Architettura scrive un passo molto significativo, dove si considera il rapporto fra il signore dell’edificio, cioè il committente (che in democrazia è la società civile), e l’architetto. Il primo è considerato il padre dell’edificio, il secondo è assimilato alla madre. La madre (l’architetto) conclude la gestazione con un modello, che presenterà orgogliosa al padre. Nel caso di Rossi i molti modelli in mostra – orgogliosamente presentati – affascinanti e magici, somigliano così poco al padre da lasciare più di un dubbio sulla virtù della madre.
Due progetti racchiudono in modo emblematico il valore positivo e le problematicità dell’intero contributo rossiano al mondo della cultura: la scuola elementare di Fagnano Olona 1972-1979 e il Teatro del Mondo del 1979. Entrambi precedenti il 1980 e quindi non rappresentativi dell’intero arco della produzione che giunge fino al 1997, anno della morte. Ma tutte le coordinate della posizione teorica e della poetica erano all’epoca già fissate e le opere successive non hanno che ribadito e confermato quanto già acquisito in questo primo periodo (in coerenza con l’ossessione e la base ripetitiva di cui l’autore dichiara la necessità). Le due opere rappresentano – a mio parere – i poli qualitativamente opposti – della ricerca di Rossi, quelli che – infelicemente il primo, felicissimamente il secondo – ne definiscono la portata.
Chiariamo subito che si tratta – in entrambi i casi – di opere poetiche, fortemente intrise di richiami archetipici, di memorie antropologiche e di riferimenti alla storia dell’architettura e forse più alla storia dell’uomo. Opere dense che giustamente hanno polarizzato l’interesse generale. Ciò che le rende diverse al punto da poter sostenere che il Teatro del Mondo sia un capolavoro assoluto e la scuola un probabile crimine contro l’infanzia è appunto lo spostamento che Rossi nei fatti rivendica dallo statuto del progettista a quello dell’artista. L’architetto – secondo la definizione di Argan (e non solo) – è tenuto a svolgere un’azione sempre positiva versi i fruitori, deve occuparsi del loro bene, il progetto di architettura è finalizzato e responsabile della realizzazione e questa – a sua volta – del benessere che ci si aspetta nell’abitarla. L’artista al contrario non deve proprio niente a nessuno. Gode di una sorta di immunità diplomatica che gli permette di attraversare i vari domini della conoscenza e dell’espressione eventualmente anche fregandosene del benessere del fruitore dell’opera d’arte. L’opera d’arte contemporanea non ha – se pure l’abbia mai avuta – una funzione consolatoria o di piacere. L’arte contemporanea mette in crisi, svolge una funzione critica senza inibizioni e senza censure. In ipotesi un artista che odia l’umanità è libero di esprimere il suo odio, può essere un hater efferato, può all’occorrenza infliggere sofferenza fisica o estetica a sé e agli altri senza tradire il proprio statuto. Più semplicemente l’artista, il poeta può perseguire sue finalità e interessi caratterizzando la sua opera con i contenuti suggeriti dal proprio demone. Può essere egocentrico, narcisista e autoreferenziale. La società in fondo chiede proprio questo ai diversi: di essere sollecitata dall’osservazione delle infinite forme che l’umana diversità può assumere. Tornando alle due opere ci si può domandare: la scuola di Fagnano Olona deve garantire abitabilità ai suoi piccoli studenti e ai maestri oppure può liberamente esprimere memorie, archetipi (ossessioni e iterazioni) personali dell’autore? Deve avere sensibilità pedagogica o può essere progettata pensando ad altro? La messa in scena nella scala al vero dei tristi paesaggi industriali di Sironi (innocui se circoscritti al piano pittorico della tela) con tanto di ciminiera (inutile) che purtroppo rimanda anche ai lager; la configurazione planimetrica secondo una perfetta simmetria accademica superata nell’edilizia scolastica da almeno ottanta anni; le corti programmaticamente tristi e spoglie perché tale è il personale mood dell’autore sono temi legittimi o sono abusi d’autore? Le magistrali fotografie di Ghirri restituiscono perfettamente il peso grave che la scenografia rossiana nella sua spietatezza e mancanza di empatia impone quotidianamente ai piccoli attori. Quale genitore, potendo scegliere, sarebbe felice di vedere i propri figli crescere in un’atmosfera da lager? Molti di noi sarebbero però felici di avere le foto di Ghirri, come anche i quadri di Sironi o di De Chirico. Diverso è osservare la scena ritratta (quando ne ho voglia) dal farne obbligatoriamente parte ogni giorno.
Se quello che è contestabile alla scuola riguarda l’indifferenza alle esigenze di chi la frequenta, diverso è il discorso per il Teatro del Mondo che può essere considerato la più felice opera di Aldo Rossi e tra le migliori del Novecento. Un capolavoro assoluto. La grande forza dell’idea, della concezione e anche della realizzazione del teatro risiede nel suo essere inutile cioè nell’essere esonerato programmaticamente da ogni funzione (quella “teatrale” è puramente pretestuosa e secondaria). Grazie alla sua inutilitas si può porre come modello formale, come teorema architettonico puro. La stravaganza dell’invenzione, la gratuità della sua stessa esistenza lo libera da ogni impegno, da ogni dovere etico, economico, sociale, può quindi legittimamente parlare solo di arte, può permettersi di rimanere meta-architettura. A chi verrebbe in mente di commissionare un teatrino effimero realizzato in tubi da ponteggio e tavole da cassero (per poche persone, non sofferenti di mal di mare, e inerpicati su più livelli) posto su di una chiatta galleggiante? Ovviamente a Paolo Portoghesi, curatore della Biennale di Venezia edizione 1980, quella del lancio dell’architettura “postmoderna”, il quale infatti voleva innescare un esperimento virtuale, una sorta di studio al vero per un’architettura a linguaggio zero, una tautologia adatta a ogni circostanza e ambientabile ovunque. Il Teatro del Mondo non esiste più, è stato smantellato dopo aver girato per un po’ nella laguna Veneta ed aver toccato la costa croata. Singolare il fatto che l’autore si sia rammaricato della sua distruzione, come se non fosse il naturale destino di una scenografia e il modo migliore per essere assunto nell’empireo delle idee sfuggendo alla corruzione cui ogni cosa terrena è destinata. La genialità di Rossi è stata di aver generato un oggetto architettonico dotato del potere di dialogo con ogni contesto. Perfettamente ambientato sullo sfondo del centro storico veneziano e non solo. Esaltante e rivelatore vederlo (sempre nelle immagini fotografiche che hanno registrato l’evento miracoloso) ancorato alla punta della Dogana, davanti a San Marco o muoversi lentamente nello skyline della laguna con la pioggia e col sole, o come un’apparizione nella nebbia.
L’opera di Aldo Rossi, sospesa e oscillante tra arte e architettura ci sollecita a prendere posizione sull’architettura che vogliamo, a decidere se la sua utilitas, la sua abitabilità sia negoziabile o meno. Otto anni dopo di lui il Pritzker sarà assegnato ad un altro architetto italiano: Renzo Piano che rispetto a Rossi vive su un altro pianeta e persegue finalità diverse se non opposte. L’Accademia lo ha a lungo snobbato per la sua concreta aderenza alle leggi del ben costruire, per il suo porsi come sapiente artefice avaro di teoria e prodigo di cantiere, ma ha dovuto alla fine piegarsi all’evidenza dei fatti. Piano non è un poeta né desidera esserlo, è un problem solver esperto nel costruire per l’uomo. E come tale non si presta a porre dilemmi, a formulare enigmi: quello è il mestiere, il magistero di Aldo Rossi.